mi disse di quel gatto persiano con una punta di amarezza. me lo disse mentre chiudevo la clip dell’orecchino, gettandomi un ultimo sguardo allo specchio guardandomi di lato. controllavo che la ciocca di capelli scendesse morbida coprendo il lobo, e lui mi disse di quel grandissimo gatto bianco che gli aveva spezzato il cuore. lo aveva corteggiato per anni, mi disse. era il gatto dei vicini ed era un solenne persiano bianco dagli occhi color fango. il piattume di quegli occhi lo aveva irretito, come irretiscono certe cose fredde che non si sanno spiegare. il gatto lo ignorava con superbia e lui ad ogni occasione cercava sempre di avvicinarlo. lo aveva fatto per anni, in tutte la maniere: con dolcezza, con sgarbo, con rabbia e di nuovo delicato. indulgente, appassionato, cauto. niente, il gatto non lo degnava di uno sguardo, e procedeva fiero.
tranne quella volta.
quella volta d’estate i condomini avevano deciso di festeggiare l’inizio delle ferie sul terrazzo comune. c’erano le lenzuola stese ad asciugare su lunghe corde che lo attraversavano in diagonale, come nei vecchi film italiani. avevano messo un tavolo tra due file di lenzuola e stavano brindando al fresco di mezzanotte.
il gatto quella sera gli si era avvicinato; lo aveva fatto di sua iniziativa, rimanendo accanto alla sua sedia e lasciandosi accarezzare, mansueto, per tutto il tempo. lui, mi disse, aveva sentito il cuore traboccare, commosso e grato. si era sentito l’uomo più fortunato della terra.
mi disse che le stelle devono avere lo stesso odore di grazia che aveva sentito lui su quella terrazza.
quell’odore lo aveva sentito solo un’altra volta, la stessa estate. quando lei lo aveva baciato.
di lei mi aveva detto una volta sola e poi mai più. non la nominava mai, quindi la pensava ancora. anche quello nei suoi confronti era stato uno strano inseguimento, scostante e nervoso. poi docile, devoto, e di nuovo violento. era stato respinto in tutti i modi, con parole, gesti, suoni, risate e occhi arrabbiati.
alla fine, si era avvicinata lei. quella volta lo spazio che li separava divenne madido di paura e di ferite mai cicatrizzate. inferno e paradiso insieme. in fondo ai loro occhi, una voglia incontenibile di poesia.
quella volta e poi mai più.
ma non mi raccontava mai molto: non aveva voluto che lei prendesse vita nella mia fantasia.
doveva restare nella sua. lei era roba sua.
quell’estate il gatto era morto all’improvviso. si era lasciato accarezzare solo quella volta e poi mai più, quella volta sulla terrazza, quando erano stati inseparabili per una sera che era valsa come cento.
“quando mi chiese – conosci l’estate – io, per un giorno,
per un momento, corsi a vedere il colore del vento”. (fda)
“Lei doveva restare roba sua” forse perché era l’unica ad averlo realmente amato. L’unica a cui lui era interessato, l’unica che amava profondamente. L’incontro rappresenta il cerchio che si chiude, il tocco dell’Amore che è Poesia feconda. In realtà LEI non muore, a morire è la capacità di innamorarsi di nuovo. Perché ormai la traccia della sua anima aveva conquistato il suo cuore. Il suo, di nessun altro. Solo LEI seppe rendere Arte il bisogno di Amore. Complimenti per l’emozione “sfuggente” che riesce a trasmettere, davvero notevole, Cristina 🙂
La descrizione del gatto e degli occhi color fango è sublime