sono passati 18 mesi dal terremoto. si parla di macerie e si parla di abbandono, si parla di legalità, di regolarità, di fretta, di ricostruzione, di sbrigatevi-a-ripulire-tutto. si parla delle stesse cose da 18 mesi. l’italia si è stancata di sentirne parlare. noi non lo ammettiamo, ma anche noi siamo stanchi di sentirne parlare. si galleggia in un limbo di attesa in cui sembra che non si sappia mai a chi tocchi decidere cosa fare e come farlo, come in una storia d’amore in agonia che alla lunga lasci spazio solo al desiderio di normalità, accada quel che debba accadere.
è passato un anno e mezzo da quando il mondo ha tremato e nulla è più stato come prima. un anno e mezzo in cui gli abitanti della costa e quelli della montagna si sono incontrati, scontrati, hanno dovuto imparare a convivere, forse non ci sono ancora riusciti e chissà se ci riusciranno mai. ma a raccontarlo ci si sente sporchi, meschini, egoisti. gli abitanti della costa hanno scelto (?) di scontare la colpa di essere nati sulla sabbia, caricandosi della croce di un passante come toccò a simone di cirene, senza fare domande, incapaci di mettere un “io” di fronte a tanti “loro” caduti in disgrazia. tanti “loro” che avrebbero potuto essere “noi”, e anzi tra cui a volte non passa nemmeno differenza. sentendosi in colpa per avere ancora tutto di fronte a chi nel giro di 23 secondi non ha avuto più nulla, mezzo abruzzo durante un anno e passa si è fatto spugna di tanto dolore irreversibile, di tanta rabbia sparata nelle più disparate direzioni, incontrollabile, impetuosa, ingestibile. inimmaginabile, per chi non ci è passato.
in questi 18 mesi abbiamo conosciuto tante storie di solidarietà, tante storie di coraggio. tante storie di perdita che se proviamo solo per un attimo ad immedesimarci ci verrebbe da inginocchiarci e ringraziare perchè non è toccato a noi. però in questi 18 mesi si è fatta tanta confusione tra il patriottismo e il fanatismo, tra l’orgoglio abruzzese e l’arroganza, tra la carità e l’assistenzialismo.
in questi 18 mesi si è sparato a zero sulle case o CASE o map o chiamatele come volete (io non saprò mai le differenze) troppo costose e troppo isolate e troppo colorate e troppo brutte, ma in pochi hanno davvero ascoltato la gratitudine senza fine di quelle persone che hanno potuto affrontare l’inverno con un tetto sulla loro testa. troppe volte si è dato spazio a chi si è comportato come se il terremoto fosse venuto per colpa di qualcuno. troppe volte si è rincorso lo scandalo, l’indignazione, l’indecenza; troppe volte si è puntato il dito nella direzione più comoda. per questo anche noi siamo stanchi di sentirne parlare. ma dirlo è peccato.
l’essere umano è incapace di accettare il fatto che spesso le sfortune e le fortune non abbiano un diretto responsabile.
ho varcato la soglia della zona rossa e mi sono ritrovata in una piazzetta silenziosa. definire la zona rossa una zona fantasma non rende l’idea. nel giro di pochi metri mi sono ritrovata in una specie di dimensione parallela, in cui anche l’aria aveva un movimento diverso, più lento quasi. immobile. la piazza intera era immobile. la statua al suo centro sembrava una persona pietrificata. poche buste di spazzatura accatastate, pieni di materiale secco, che non emanava odore. foglie secche dappertutto. il set cinematografico di una soap opera di successo, abbandonato appena scaduti i contratti.
nel centro de l’aquila i monumenti sono imbustati, puntellati, ingabbiati. sembrano persone che giacciono in un letto di ospedale, ingessate da capo a piedi, e tu le guardi e ti chiedi: come gli metteranno mano? e come sarà, poi?
c’è la scuola elementare che era vecchia già quarant’anni fa – mi dicono – e che è la piena rappresentazione della borghesia più potente – mi dicono – e che adesso è una magnificenza di snodi lucenti e fitti di impalcature di sostegno, bella da togliere il fiato, ad un costo che forse di scuole ce ne uscirebbero otto. e, secondo i sondaggi, la maggior parte degli aquilani non ci manderebbe i figli per niente al mondo, una volta ristrutturata.
l’aquila è in ricostruzione. saranno gli aquilani a ricostruirla, ma saranno quelli veri. quelli che non gliene frega niente se devono rimboccarsi le maniche e cominciare a zappare. quelli che se non ci fossero tutti gli ostacoli burocratici avrebbero già rimontato le loro case, mattone su mattone, lavandosi con l’acqua del pozzo se ce ne fosse stato il bisogno, o riscaldandosi con i falò. quegli aquilani brava gente, che la loro città la amano e come gli innamorati sinceri la conquisteranno in silenzio, e che guardano sconcertati le loro strade vuote non desiderando altro che vederle di nuovo vivere, anche con i turisti del dolore, vanno bene pure quelli, basta-che-venga-qualcuno. quegli aquilani che ricominciano ad aprire i negozi, sfidando le leggi del mercato pur di recuperare un palliativo di normalità, organizzando serate, preparandosi alla stagione invernale e facendo investimenti come se nulla fosse cambiato – con un barlume di sconcerto negli occhi, come chi spazza la sabbia di fronte alla sua tenda nel deserto, per far pulizia.
sono questi aquilani, che vanno aiutati. questi che per primi credono nella loro città, e che aspettano che andiamo a farci una birra.
Ti ringrazio per aver reso, con lucide immagini, senza retorica e piene di poesia, lo stato di confusa incertezza in cui viviamo e in cui giace il centro storico dell’Aquila. Per averci spiegato la fatica di chi “spazza” la sabbia davanti alla sua tenda nel deserto. Però, lasciami dire, quello di cui gli altri si sono stancati è il gracidare di chi è contro tutto e tutti a prescindere, e che non rappresenta di certo la maggioranza degli aquilani. Anche questo però, a ben leggere, l’hai spiegato. Torna presto…se riusciamo a cambiare le cose ti proporrei come assessore alla cultura. Dico sul serio, eh!